Tappezzieri in estinzione? No, vivi e combattivi

Pietro Virzi
Pietro Virzi

Quarant’anni di pratica artigiana e quattro decenni di storia della tappezzeria italiana, dagli sfarzi del periodo d’oro dell’associazionismo di categoria all’abbandono totale delle istituzioni e delle amministrazioni, con il conseguente rischio d’estinzione di un mestiere prezioso. In sintesi la storia di Pietro Virzi, tappezziere in Milano e presidente della Consociazione Italiana Tappezzieri Arredatori.

Una storia di bottega, mestiere, manualità, forza di volontà. Una storia come molte nel nostro Paese. Una storia iniziata una quarantina di anni fa e che rischia seriamente di non ripetersi più. Quella di un artigiano tappezziere. Ci preoccupiamo (giustamente) del fatto che il nostro Paese si sta deindustrializzando, che le fabbriche migrano in nazioni più o meno lontane, che un paese come il nostro non può vivere di soli servizi. Bene, forse però sarà il caso di essere sensibili anche al futuro che aspetta l’artigianato: stretto tra l’impetuosa ascesa del digitale – inteso come opposto del “manuale” e non come sua naturale evoluzione – e una visione solo nominalmente modernista che relega le attività svolte con le mani in un ruolo minore, secondario, se non addirittura dequalificato. E non parliamo poi, nello specifico, del tappezziere. Se per il fine ebanista, per il restauratore di quadri, per il liutaio, si ha una naturale soggezione e li si considera alla stregua di artisti a loro volta, per il nostro tappezziere non si ha certo la stessa considerazione. Eppure questo mestiere non ha nulla da invidiare ai citati. Anzi.

La storia di Pietro Virzi – protagonista della nostra intervista – è esemplare: un fiume in piena quasi inarrestabile che racconta l’avventura di un ragazzo che è cresciuto nel mestiere, di un uomo che costruisce la sua attività e si afferma, e di un dirigente che lotta per mantenere vivo il lustro per la categoria di fronte all’insensibilità di istituzioni e amministrazioni. È il racconto di una battaglia che si scontra con uno dei tanti muri di gomma della nostra italietta, quella stessa che ha visto un ministro affermare che con la cultura non si mangia. Forse questo ex (per fortuna) ministro non ha abbastanza fame, perché proprio il nostro Pietro Virzi ci ha dimostrato nel suo racconto che la formazione, la cultura di comparto, la conoscenza di un mestiere, l’amore per l’artigianato hanno reso proficua la sua attività e quella di tanti suoi colleghi e, non ultimo, sono uno dei pilastri sui quali regge ancora il mercato del tessile d’arredamento e del mobiliero in Italia. E, come vedremo, non solo di alta fascia…

Pietro Virzi, lei è del 1954, nel 1968, cioè a quattordici anni, quando gli universitari italiani lanciavano la più grande rivolta giovanile del nostro Paese lei varcava la soglia di una bottega per cominciare a imparare il mestiere di tappezziere. Ha rimpianti per aver abbandonato gli studi dopo la licenza media e aver cominciato a lavorare così presto?

Senta io sono di origini siciliane, trasferito a Milano nel 1962. Dopo la scuola media si doveva andare a lavorare, era naturale e ovvio per i figli di famiglie non abbienti, tant’è che già in seconda media trovai una bottega di tappezzeria a Bollate dove cominciai ad avvicinarmi al mondo dell’artigianato. Quando terminai le medie cominciai a lavorare a tempo pieno e intuendo subito di aver fatto la scelta giusta. No, non ho nessun rimpianto questo mestiere mi piace, mi piaceva anche da giovane, tanto che lo stesso mio primo maestro mi indirizzò alla scuola dell’Atisea che però era in C.so di Porta Vigentina a Milano, quindi lontano da casa. Non potevo continuare a lavorare da lui e frequentare i corsi,cosi mi trasferii a lavorare nella bottega di Renzo Pedrini, a trecento metri dalla scuola tappezzieri. Mi assunsero come apprendista e potei frequentare i corsi serali. Tra il 1968 e il 1974 ho lavorato presso tre “Botteghe scuola” - allora si trovavano con facilità, - Tognolo al (quartiere) San Marco, Merli all’Isola ed Enea Paris in Porta Romana. Quest’ultimo grande maestro e, tra l’altro, insegnante della stessa scuola Atisea. Con lui ho visto la tappezzeria con la “T” maiuscola e mi sono allenato per lanciarmi autonomamente nel mondo del lavoro. Cominciai proprio nel 1974 a lavorare da solo, una sorta di “freelance” chiamato da più botteghe. Nel 1981 decisi di fare il grande salto, aprii la mia attività a Cologno Monzese con l’intento di portare la tappezzeria di qualità anche fuori dalla grande Milano e in fondo, nel mio piccolo, credo di esserci riuscito. È andato tutto bene per vent’anni, poi la zona dell’hinterland milanese ha cominciato a essere improduttiva e avendo comunque diversi clienti in città, sono tornato a Milano, in via Mosso, a ridosso di Viale Padova e Viale Monza una zona artigiana piena di laboratori e attività simili alla mia. Purtroppo tra il 2002 e il 2010 il sovrapporsi di crisi economiche e l’abbandono dei vecchi residenti causò la chiusura di diverse attività nella zona, costringendomi a cercare una nuova sistemazione.  Si arriva così al 2011, anno in cui si presenta la possibilità di spostarsi in Città Studi, quartiere universitario e considerato da molti ancora a misura d’uomo per la sua vivibilità. Ripeto, nessun rimpianto è vero che la scuola in senso classico l’ho terminata con le medie, ma ho avuto la fortuna di studiare tutto il necessario per la mia attività e poi fare tantissima esperienza su strada. Che c’è di meglio per un artigiano?

A fianco della sua esperienza professionale, da molti anni, c’è anche l’attività associativa, oltretutto oggi col ruolo di presidente della Cita (Consociazione Italiana Tappezzieri Arredatori): passione o dovere?

Un po’ dell’uno e un po’ dell’altro. Indiscutibilmente passione perché amo il mio mondo e desidererei vederne il futuro in crescita e caratterizzato dalla giusta considerazione. Poi anche dovere perché noi tappezzieri abbiamo attraversato periodi di alti e bassi dal punto di vista dell’associazionismo e oggi, pur essendo in pochi rispetto al totale in attività, stiamo mettendo il massimo sforzo per tornare a essere una congregazione di riferimento. I numeri dell’Atisea – chiusa nel 2002 – non torneranno, ma la C.i.t.a. – che è nata nel 1975 – riteniamo abbia la possibilità di crescere, soprattutto se riesce a svolgere il suo progetto strategico. Certo tutto è cambiato rispetto ai tempi della sua nascita: allora le sette associazioni regionali (in realtà cittadine ma con forza di coesione a livello delle rispettive regioni) mettevano insieme qualcosa come 1200 circa aderenti e il nostro “movimento” aveva peso e voce in capitolo, tanto da arrivare quasi a far votare una legge sulla patente di mestiere. Abbiamo una splendida sede a Genova e collaborammo con successo alla nascita del Museo della Tappezzeria di Bologna. Il problema vero è che con la chiusura della scuola di Milano, contemporanea alla scomparsa dell’Atisea, si è davvero compiuto un tentato omicidio del mestiere. E ciò CIMG3381che più è grave questa sorta di reato è avvenuto con l’ausilio delle istituzioni e delle amministrazioni, sorde a ogni richiesta di sostegno giunta da parte dei tappezzieri. Come se non bastasse, la stessa rigidità, e anche qualcosa di più colpevole poiché compiuta dalle associazioni sindacali dell’artigianato, si è riproposta tra il 2012 e il 2013 quando abbiamo tentato di riaprire corsi di tappezzeria presso la Scuola di Restauro e Tecniche Artistiche di Piazzola sul Brenta. Insieme al nostro
vicepresidente Marco Longo le abbiamo tentate veramente tutte: ci volevano 30mila euro per lanciare il primo corso, ne trovammo 15mila, ma per trovare i restanti nessuna associazione ne istituzione ci ha dato retta. Odi, gelosie tra componenti politiche, puro disinteresse, e così nulla si è riusciti a fare. Eppure ci sarebbero state tutte le condizioni per rilanciare il mestiere.

Ecco appunto, come vede il futuro prossimo del mestiere, vista la crisi e al di là delle avventure associative?

Guardi, le sembrerà strano, ma vedo parecchie possibilità. Anche a causa della crisi, ma non solo, c’è una richiesta diffusa di “ri-uso” nella gente. Tornano le botteghe di sartoria per strada, è di moda riparare e riciclare. Tra i giovani si riaffaccia un desiderio di manualità, anche fra quelli avviati a studi superiori. Insomma l’aria è quella giusta. Certo, abbiamo perso due generazioni e ora è più difficile fare qualsiasi cosa. Si guadagna meno, c’è maggiore concorrenza dalla distribuzione che propone il consumismo come regola – butta e sostituisci, tanto spendi meno – il lavoro è frazionato e più faticoso. Però non sono pessimista.

 

Per molti settori del lavoro l’estero è stata una vera e propria scialuppa di salvataggio. So di molti suoi colleghi che operano fuori Italia. Crede che un artigiano tappezziere possa esportare le proprie competenze?

È molto difficile e quando avviene si è comunque legati al lavoro di un architetto coordinatore del progetto di ristrutturazione oppure, e i casi sono rarissimi, si deve essere in grado di garantire forniture quasi semi-industriali. Per gli artigiani della dimensione standard ci vorrebbe CIMG0580proprio una rete, un consorzio promozionale in grado di garantire la diffusione della conoscenza fuori dai confini altrimenti, per i singoli, i canali del lavoro oltrefrontiera sono casuali ed episodici.

Oggi un tappezziere arredatore deve essere più artigiano o più commerciante?

Diciamo che col cuore direi 75% artigiano e 25% commerciante, purtroppo però siamo ormai al 50 e 50. Tutto è immagine, gioco delle parti col cliente. Si fanno miriadi di preventivi per poi scoprire che la variabile prezzo è diventata l’unica importante. La gente non è normalmente informata e quindi è tutta apparenza, dobbiamo tirare fuori decine di campionari solo per far “pesare” la gamma di tessuti che possiamo offrire. In pratica dobbiamo coccolare il cliente. La qualità del lavoro viene solo dopo.

Ma allora il mestiere conta ancora o tappezzieri ci si può improvvisare?

Su questo argomento dobbiamo essere molto chiari. Il mestiere non è cambiato e non si può certo barare. Una cosa è essere un po’ più venditori, un’altra è l’improvvisazione. Su ciò sono categorico. Altro discorso sono però i vari livelli in cui oggi si svolge il nostro mestiere, l’importante e mantenere alta la professionalità nei confronti del cliente e nel rispetto del nostro “mestiere”: voglio dire che non è necessario essere tutti tappezzieri d’arte per avere la stessa dignità professionale. E questo discorso vale anche per l’associazione: non è più tempo di essere snobisti nella selezione dei soci che chiedono l’iscrizione. Dobbiamo differenziare, creare gruppi e sezioni per dare maggiore massa critica al numero di associati e poter pesare di più.

Chiudiamo con le iniziative di sviluppo della C.i.t.a., al convegno dello scorso settembre si parlò di nuovo sito e blog. A che punto state?

In dirittura d’arrivo. Entro un paio di mesi al massimo saremo in rete. Il nuovo sito e un blog che verrà inizialmente gestito da più soci ma nel quale cercheremo di ruotare tutti per dare le risposte ai quesiti che emergeranno. È un punto d’inizio, non le nascondo che vorrei tanto tornare a pubblicare un giornale ma per ora non ci sono assolutamente i fondi. Però mai dire mai. Gli obiettivi sono sostanzialmente tre: aumentare il numero d’iscritti, riattivare un dialogo fitto a livello nazionale e tra le varie realtà territoriali (ecco la funzione del sito e del blog) e programmare la collaborazione o addirittura l’affiliazione con associazioni similari e contigue come per esempio l’Assites.

Ultimissima battuta. Cosa fa grande un tappezziere?

La miglior qualità per un tappezziere, come per qualsiasi artigiano, è creare e plasmare collaboratori che siano vere e proprie risorse per l’attività: in questo modo si esalta e si tramanda il senso del nostro lavoro.

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