Forte bisogno di visibilità

La visibilità del brand e la percezione del suo valore come argomento strategico primario per il futuro delle aziende di editoria tessile. E poi la questione, tutta italiana, dell’assenza di una figura cruciale per il rapporto con il consumatore come l’interior decorator: un argomento che porta sulle spalle la necessità di una vera evoluzione culturale e di un diverso percorso di formazione scolastica. Di questo abbiamo parlato con Maurizio Cecchetti, amministratore delegato di Zimmer+Rohde Italia, manager tessile esperto che però ha conosciuto anche il mondo del “prodotto finito”, con punti di vista quindi differenziati e articolati. Quella che andiamo a presentarvi si potrebbe definire una storia normale. La normalità evolutiva di un manager tessile, attivo da una quindicina d’anni o giù di lì, che si è temprato in ambiti professionali anche molto diversi da quello dell’editoria tessile, e oggi si trova alla guida di una filiale importante di un grande gruppo internazionale – tedesco, tanto per cambiare – del nostro comparto. Stiamo parlando di Maurizio Cecchetti, attuale amministratore delegato di Zimmer+Rodhe Italia, cinquantaseienne milanese di formazione bocconiana con una “meritevole” passione per le due ruote e una visione ben chiara dell’attuale realtà di questo comparto.

Sana e razionale normalità, dicevamo, da non confondere mai però con grigiume e banalità. Il nostro intervistato ha frequentato mondi apparentemente più vivaci e creativi – la giocattoleria, dove ha cominciato a lavorare, per esempio – eppure il mondo tessile è riuscito nell’impresa di farlo innamorare anche se, per sua stessa ammissione, soffre un po’ la difficoltà di vendere e promuovere un semilavorato, piuttosto che un definito e riconoscibile prodotto finito. E qui viene il dunque: riuscire a portare il più vicino possibile al pubblico una materia verso la quale c’è bassa percezione di valore. Ecco allora che la normalità diventa straordinaria, perché l’impresa è quantomeno molto ardua e le problematiche sulle quali – anche noi da queste pagine di rivista – ci arrovelliamo da anni sono ancor più complesse nel nostro Paese rispetto a ciò che si può riscontrare anche solo nella vicinissima Francia. Il problema e’ dunque sempre il solito: dare visibilità al tessuto, far comprendere che ciò che propone un editore tessile non e’ solo un campionario di tessuti e tendaggi ma un modo di arredare, uno stile preciso e identificato. Ne più ne meno quello che offre una marca o una firma d’abbigliamento per la persona, solo che è stile rivolto alla casa. Ma, alla base di tutto, si parte da una domanda: il consumatore è davvero così interessato a dare un profilo “fashion” alla suo abitare? A questa domanda Cecchetti ha risposto con un sorriso:«Non so se ha tutta questa disponibilità al momento. Forse non ne è consapevole, ma noi dobbiamo crederci e coltivare il sogno che, prima o poi, ci arriverà». Ho definito questo nostro incontro “normale”, forse era più giusto usare l’aggettivo “sereno”. Ecco, nonostante le difficoltà del momento, tutti gli ostacoli quotidiani che si frappongono al business nel settore dell’arredamento, il nostro interlocutore ci è parsa persona serena e consapevole. Un buon punto di partenza per avere idee chiare sul da farsi in un comparto davvero difficile come quello del tessuto e del tendaggio.

Nel 1998 lei è stato chiamato da Zimmer+Rohde a creare la filiale italiana dell’azienda tedesca. Aveva quattro anni di esperienza nel tessile con ruolo manageriale in altra realtà e poi esperienze nel comparto del giocattolo e degli accessori e casalinghi. Quali sono le particolarità più evidenti di questo settore rispetto a quelli più vicini al consumatore finale?

La prima, più immediata, è che si opera in un ambito professionale di riferimento e non su una semplice filiera produzione/distribuzione/consumo. Tuttavia non possiamo mai dimenticare che alla fine, anche se un po’ in lontananza, qualsiasi nostro tessuto o tendaggio diventa davvero un prodotto finito e si colloca in una casa. Quindi la sfida è, se vogliamo, più difficile di quella che si affronta quando si parla di un prodotto che giunge direttamente al consumo, perché si sommano problematiche diverse. Noi non abbiamo nessuna possibilità di riscontrare sull’utente finale l’effettiva qualità percepita delle nostre proposte, anche perché nel momento in cui una tenda è installata o un tessuto è montato su un divano il grado di riconoscibilità in quanto creazione Zimmer+Rohde è assolutamente nullo. Ma alla fine ciò che conta è proprio la soddisfazione del cliente finale. Non solo. Stiamo parlando di prodotti che hanno una collocazione di prezzo e fanno riferimento a un target di consumo molto esclusivo, direi ormai elitario. Risulta chiaro che l’esigenza del consumatore finale è conseguente al forte impegno di spesa che affronta, ma non abbiamo un brand o una firma a supportare il nostro successo. Lungi da me sminuire il lavoro di altri, ma se avessimo un marchio noto alle spalle – noi come tutti i nostri colleghi – sarebbe ben più facile ottenere riconoscimenti e metterli a frutto nella fidelizzazione del cliente finale. Invece il nostro lavoro si deve concentrare su un rapporto quasi personale con i nostri clienti – prima di tutto gli show room, poi alcuni tappezzieri evoluti, qualche mobiliere e il mondo del contract – e con ognuno di questi si devono sviluppare confronti diversi e i filtri prima di giungere all’utente finale sono di fatto vere e proprie barriere. Non ci sarebbe nulla di sbagliato se bastasse impostare il nostro lavoro creativo e materiale sul piano professionale, lasciando ad altri il compito di misurarsi con il gradimento finale, invece noi dobbiamo fare un prodotto di estrema qualità – questo ormai è scontato – ma non abbiamo modo di difenderlo e promuoverlo proprio alla fine della filiera. Così non abbiamo nessuna opportunità di fidelizzare l’utilizzatore del nostro prodotto. Condizione esattamente contraria a qualsiasi punto di partenza per una efficace politica di marketing.

Analisi lucida, ma lascia poche speranze per il futuro. Non è che questo comparto in fondo non le piace?

Assolutamente no. Se le ho dato questa impressione me ne scuso. Ho semplicemente messo in evidenza quello che è il nostro vero problema. La sfida è complessa ma certamente stimolante. La nostra azienda esiste da 111 anni, opera in ogni parte del mondo, produce centinaia di proposte nuove per ogni collezione, lavora con un team creativo di oltre dieci persone provenienti da ogni parte del mondo. Pensa che il problema possa davvero essere centrare o no una collezione? Sono ben altri gli obiettivi strategici che abbiamo di fronte. E poi c’è la specificità italiana a rendere il tutto ancor più complesso. Nel nostro Paese non esiste la figura dell’interior decorator, professionista che invece all’estero è fondamentale. Come dicevo il nostro mondo di riferimento è molto esclusivo, quando si fanno tessuti che hanno un prezzo finale fino a 250 euro al metro non si può certo pretendere di venderli a libero servizio, e allora la figura dell’arredatore è indispensabile perché diventa un ruolo di garanzia e una sorta di personal trainer e comunicatore per l’utente. Proprio tale figura può diventare una specie di trasmettitore per la nostra idea d’arredamento, perché nessuno di noi è in grado di realizzare un piano di promozione sull’utente finale che sia capace di diffondere la conoscenza del marchio e la propria idea di stile quando quest’ultima diventa solo accessoria di un altro elemento come, per esempio, un divano. Abbiamo tutti gli esempi che vogliamo da questo punto di vista: Intel (il più grande produttore al mondo di processori da computer) qualifica il computer nel quale è installato con l’adesivo “Intel Inside”, Brembo – leader nella produzione di sistemi frenanti per auto e moto – fa lo stesso nelle sue pubblicità riferendosi a Ferrari piuttosto che Ducati, ma anche Poltrona Frau con Lancia e persino Calfort – brand di additivo anticalcare – viene “consigliato” dalle più importanti marche di lavatrici. Insomma il co-marketing è ampiamente diffuso. Il problema è che ci vogliono due punti di partenza: da un lato una capacità d’investimento pubblicitario che noi – neanche tutti assieme – abbiamo, dall’altro la volontà di aderire a un programma del genere. Lei ha mai visto un mobiliere che sia disposto a esibire sul suo prodotto un’etichetta che dice “questo divano è rivestito con tessuto di questo o di quello?” Non è mai successo.

E allora come fare. Ci vogliono negozi diretti che portino il brand a contatto del consumatore e quindi lo diffondano?

Non credo sia nostro compito definire banalmente un problema di distribuzione tutto ciò che ho esposto, e quindi non credo che la soluzione per noi sia cambiare lavoro e diventare commercianti. Certo che la ricetta del direct retailing ha risolto il problema per molti in altri comparti, ma per il nostro sarebbe un suicidio e significherebbe andare a distruggere una parte di filiera che è invece indispensabile. Inoltre noi non stiamo parlando di un comparti con volumi di merce imponente, quindi è una strategia che non starebbe in piedi. Altro discorso è la realizzazione di alcuni flagship store in situazioni strategiche, capaci di attirare l’attenzione di quelli che vengono definiti i “trend setter”, oppure essere punto di riferimento per i famosi interior decorator di cui parlavamo prima. Non solo. Le faccio un esempio: noi da qualche anno proponiamo una piccola collezioni di mobili disegnata da nostri creativi. Non abbiamo intenzione di cambiare mestiere, ma l’abbiamo individuato come buon sistema per trasmettere proprio quello a cui facevo riferimento: la nostra capacità di proporre un programma di stile, un’idea complessiva d’arredamento, non solo un tessuto a corredo di altri elementi. Ecco, in un nostro ipotetico flaghship, sicuramente ci sarebbero i nostri elementi mobili a comporre gli ambienti al fine di rappresentare l’esemplificazione diretta del nostro “mood” interpretativo.

Uno degli aspetti importanti per rendere di più facile percezione al consumatore un prodotto è la certezza del prezzo. Anche da questo punto di vista nel comparto tessile d’arredamento è tutto molto aleatorio. Le differenze di costo finale sono notevoli. Crede che questo sia un problema vero e che si potrebbe risolvere con la definizione di un listino di prezzi consigliati?

Non lo vedo come un problema così prioritario. O quantomeno è abbastanza superato. Il mondo è cambiato. Internet e l’informazione sul web permettono confronti immediati, e tutto ciò facilita il rispetto di massima di prezzi equilibrati fra loro. Non parlo di prezzo imposto, sarebbe impossibile da applicare a una distribuzione così composita e differente, però la realizzazione di un listino “consigliato” ha una sua efficacia. Stiamo parlando di un comparto apparentemente lontano dall’utente finale ma che deve adeguarsi ai ritmi più rapidi di un mondo di consumo. Il problema è farlo con i giusti tempi partendo dalla serena considerazione che tutto sta mutando. Oggi una collezione dura non più di quattro anni, più o meno la metà di un tempo. Ciò non l’abbiamo determinato noi, oppure i nostri clienti. È una trasformazione dovuta alla moda, alle abitudini di consumo, al collegamento sempre più evidente che c’è tra trend tessili anche molto diversi fra loro. Pensi a qualche anno fa quando le cartelle colore non passavano di moda con l’attuale rapidità. Sembra passato un secolo eppure stiamo parlando di una evoluzione molto recente.

Torniamo per un attimo al tema dell’interior decorator. È una figura che proprio non si può promuovere in Italia?

È una questione di difficile soluzione perché impone un vero programma culturale. Eppure sono convinto che sia uno degli argomenti sui quali dobbiamo concentrarci tutti. Infatti, anche in sede associativa nostra ne stiamo discutendo parecchio. In questo caso dobbiamo essere quasi visionari a mio parere, pensare davvero a un grande progetto di evoluzione culturale, ragionando anche sull’ipotesi di promuovere scuole e formazione mirata e specifica.

Ultima domanda: lei ha parlato di una clientela di riferimento quasi elitaria. È vero che in quell’ambito la capacità di spesa è ampia ma non crede che sia una forte limitazione? Sempre in una logica di diffusione del marchio, è impensabile allargare il target di clientela creando collezioni con un prezzo finale più abbordabile?

È un ragionamento sul quale abbiamo molto riflettuto. In effetti l’idea di creare collezioni differenziate, anche in termine di costo, per raggiungere più clientele può essere valido, ma torniamo sempre alla questione primaria: il filtro distributivo rende di difficile lettura l’azione di ricerca di tale clientela. In poche parole dove andiamo poi a cercare questa nuova tipologia di cliente? Abbiamo prove che sia un soggetto che frequenta il canale distributivo che noi utilizziamo? Insomma non è solo una questione di prezzo – chi compra un Rolex vero non fa grandi differenze se costa 5mila o 6mila euro – ma anche di valore percepito. Quello che certamente non possiamo fare e varcare la soglia di canali distributivi meno qualificati, altrimenti anche quella minima sensazione di valore che abbiamo guadagnato si perderebbe rapidamente.

di Sergio Coccia

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