Made in Italy? Una questione culturale

In un momento incerto per l’intero scenario economico mondiale, anche il design sta facendo i conti con una cultura del progetto sempre più globalizzata. Un nuovo contesto in cui è sempre più grande la difficoltà di trovare un distinguo tra le diverse forme di progettazione; un paesaggio popolato da un sempre maggior numero di personaggi, in grado di identificare tanti diversi modi di “fare progettuale”.
Ha quindi ancora senso parlare di Made in Italy? Cosa vuol dire oggi progettare italiano? Lo abbiamo chiesto ad uno dei progettisti più profondi ed intriganti della storia del design italiano: Andrea Branzi. Una dei protagonisti delle avanguardie degli anni ’70, ha fatto parte dei gruppi Archizoom Associati e Memphis, distinguendosi a livello internazionale per le sue ricerche progettuali. Co-fondatore di Domus Academy e docente del Politecnico di Milano, è uno dei personaggi chiave per capire il mondo della progettazione degli ultimi, vantando collaborazioni con alcuni dei maggiori marchi che hanno reso grande il design italiano in tutto il mondo.

Lei è un icona del “saper progettare italiano”: com’è cambiata la percezione all’estero del Made in Italy?
Premetto che io non mi occupo dei problemi del Made in Italy (che è una questione commerciale) ma dei problemi del Design Italiano. Oggi questo è meno riconoscibile all’estero, perché le sue modalità progettuali e produttive sono state adottate da molti paesi emergenti e non solo sottoforma di copie, ma molto spesso sottoforma di rapporti tra artigianato, industria, piccola e grande serie.

Perché Made in Italy?
Anche io mi chiedo perché si continua a parlare di “Made in Italy”. Oggigiorno credo che questo termine non debba più essere inteso come se fosse una realtà di strategie di mercato, bensì il risultato di una complessa e radicata cultura del progetto.

Il design/designer italiano sa relazionarsi ancora con le realtà mondiali che ci circondano?
Il design italiano è una realtà molto diversificata e complessa, in cui ogni progettista ha sviluppato una propria strategia di lavoro e un proprio linguaggio. Non si può quindi rispondere dei rapporti complessivi con il mondo che ci circonda, ma soltanto analizzare nel profondo tutti i singoli casi.

Il Made in Italy si è chiuso in se stesso o sta assorbendo – e forse ha sempre assorbito – le qualità di altri paesi? Quindi in che senso si è evoluto il progettare italiano?
Il design italiano, come quello di altri paesi, ha subito l’influenza della globalizzazione, dell’omologazione dei mercati e del livellamento delle specificità locali. Si tratta quindi di uno scenario mondiale sempre meno euro-centrico e sostanzialmente ancora legato ad una logica più da XX secolo che al modello del nuovo secolo.

Come si trasmette il modo di progettare del bel paese all’interno dei suoi progetti?
Non mi sono mai posto questo problema e devo dire che non sarei nemmeno in grado di affrontarlo; qualsiasi risposta sarebbe sbagliata.

Nei giorni scorsi si è parlato di “difesa delle proprietà intellettuali” e di salvaguardia dell’originalità dei prodotti italiani. Come si potrebbe tutelare il Made in Italy?
Si è sempre posto il problema della tutela dei brevetti e dei modelli formali da parte delle industrie. Per quanto riguarda la cultura del progetto, la creatività e l’innovazione espressiva, credo che non possa e non debba essere protetta in nessun modo.

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