Letture estive, pensieri negativi e positivi. Una recente ricerca nel settore abbigliamento e fashion evidenzia come la tendenza distributiva viaggi, per molti grandi marchi, verso una copertura pressoché totale del retail. In pratica la strada del monobrand è spianata e strategica. Nello stesso tempo cresce senza soste – nonostante la crisi – il peso del “retail network” nell’ambito del fast fashion (a parte gli orribili inglesismi, per intenderci Zara e H&M nelle vendite di fascia media). E poi c’è l’e-commerce che, almeno in Europa, viaggia a gonfie vele (Zalando, nel primo semestre 2014 supera ampiamente il miliardo di euro di fatturato, con un aumento del 29,5% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente). Senza parlare di crisi di consumi, di concorrenza degli outlet e quant’altro, già questi due fattori potrebbero rendere ogni dettagliante indipendente irrimediabilmente depresso. Il mondo cambia e, forse, i nostri figli diranno: “ti ricordi quando c’era il multimarca?”. Ma è vero, oppure c’è ancora speranza per il tanto vituperato multimarca? Facciamo un altro esempio. Quindici anni fa Patrizio Bertelli, numero uno di Prada, teorizzava la delocalizzazione in Cina come percorso obbligato perché ciò che contava non era il “made in Italy”, ma il “made in Prada”. Da lì è stata una corsa (devastante) a produrre all’estero, che ha depauperato la filiera industriale nazionale oltre ogni limite. Sembrava fosse l’unica strada possibile invece, non più di qualche mese fa, lo stesso Bertelli ha annunciato un piano d’investimenti imponente per costruire 4 nuovi impianti in Italia per un totale di 80mila metri quadrati e 700 nuovi assunti. Un piano che sottolinea una certa tendenza alla rilocalizzazione produttiva che vede l’Italia seconda solo agli Stati Uniti nel più recente periodo. Gli Usa con 175 rimpatri, e noi con 79, secondo uno studio realizzato dal gruppo di ricerca UniClub delle università di Catania, L’Aquila, Udine, Bologna, Modena e Reggio Emilia, che indica come, dal 2009, si è avviato un lento ma progressivo fenomeno della rilocalizzazione dell’industria manifatturiera. Tutto ciò per diverse questioni: il valore reale di qualità che deve riempire l’etichetta “made in Italy” per essere davvero un discrimine di scelta per il consumatore; necessità logistiche di prossimità per servire una distribuzione sempre meno disposta ad avere ingenti immobilizzi di capitale in magazzino; sempre meno evidente vantaggio economico a produrre in Oriente. Insomma è una sorta di ritorno al futuro. E se succedesse lo stesso per la distribuzione? O meglio. A fronte di una indispensabile razionalizzazione e mutazione genetica e qualitativa della nostra distribuzione, siamo sicuri che per l’indipendente non ci siano possibilità? L’Italia non è Milano o Roma e basta. O quantomeno non è solo grandi città (dalle quali, per altro, si fugge) ma è composta da una miriade di piccoli e piccolissimi centri nei quali la distribuzione di prossimità è ancora quella preferita.
In questo panorama, così ampio e radicato in Italia, una volta passata la bufera, crediamo ci sia ancora un futuro per la distribuzione indipendente. Questo a patto che si abbia il coraggio di rispondere sinceramente – e comportarsi di conseguenza – a una semplice domanda: conosco i desideri del mio consumatore? So cosa vuole o cerco d’imporgli quello che voglio io? Se il consumatore torna al centro della sensibilità del negoziante, la distribuzione di prossimità in Italia crediamo abbia ancora molto spazio e futuro.
Voi cosa ne pensate?