
Coniugare la scienza dell’analisi di bilancio e costi con la creatività geniale di un’impresa tessile. La strategia costruita a tavolino e l’improvvisazione di chi coglie istintivamente l’occasione di business. Come fare? Ci prova Matteo Pozzi, poco più che trentenne, esperto di analisi economica, che nell’azienda di famiglia Pozzi Arturo Spa porta le sue esperienze e occupandosi di “business development”. Una sfida non da poco che ha come obiettivo rendere ancor più solida l’azienda per affrontare il mercato globale. Diciamo la verità, la fabbrica tessile è l’archetipo assoluto del lavoro, dell’industria che produce. Di fatto, il tessile, è stato il passaporto che ha permesso, nella storia, la migrazione delle società da agricole a manifatturiere (la rivoluzione industriale in Inghilterra passa per le filande e la loro meccanizzazione). Ancora oggi viene giudicato il comparto industriale ideale per le economie emergenti e in crescita, al contrario viene definito “maturo” per quelle evolute. In ogni caso, nell’immaginario collettivo, l’evocazione del tessile avviene attraverso il rumore quasi assordante dei telai che battono piuttosto che affidata ai ronzii di computer gestionali.
È ovvio che oggi non è possibile scindere scienza e industria, ricerca e manifattura, lavoro e innovazione, ma resta complesso rompere gli stereotipi che collocano su sponde opposte chi “fa” e utilizza il fiuto per gli affari e chi “pensa” dopo anni e anni di studi. Se ci riferiamo a questa semplicistica suddivisione, oggi raccontiamo il presente di un giovane manager che “pensa” in una realtà che “fa”. Ma ci piace invece definire la storia di Matteo Pozzi come quella di un giovane amante dell’analisi economica che misura quotidianamente la sua passione con le necessità di sviluppo dell’azienda tessile di famiglia. Giovane davvero, è del 1980, Matteo Pozzi ha già però alle spalle un percorso di costruzione dell’identità personale non casuale: liceo scientifico e poi, nel 2004, una laurea in Economia e Commercio alla Cattolica di Milano e subito dopo esperienze di consulenza strategica all’interno di un network internazionale. Un anno e mezzo di “palestra” lasciata per seguire la sua passione “i numeri”, in una primaria società di revisione contabile. Tutto ciò fino al 2010, cioè alla scadenza dei trent’anni, appuntamento che il nostro protagonista si era dato per decidere “cosa fare da grande”. Così decide, e sceglie di entrare nell’azienda di famiglia portando le sue esperienze di analisi economica al servizio del “business development” dell’impresa di Barzago.
Lei è entrato in Pozzi Arturo Spa nell’ottobre 2010, giusto il giorno successivo al compimento dei suoi trent’anni. Sono passati tre anni da allora: come giudica il suo ruolo nel ”business development” dell’azienda di famiglia?
Per dare una risposta corretta alla sua domanda dobbiamo fare qualche precisazione. Questa azienda, come molte del distretto tessile comasco/lecchese, nasce nel periodo del boom economico tra gli anni 50 e 60 grazie alla volontà ferrea e alla disponibilità al lavoro e al rischio di quelle generazioni di neoimprenditori. Era l’epoca in cui ci voleva soprattutto grande voglia e buon fiuto e le condizioni di mercato non obbligavano ad analisi economiche particolarmente approfondite. Era mio nonno – Arturo Pozzi – a “fare” e “fare tanto” con geniale saggezza, e bastava così. Poi è arrivata la generazione successiva – mio padre, i suoi fratelli e le sue sorelle – e la specializzazione di ciascuno di loro nelle varie discipline che compongono l’attività industriale e progettuale si è affermata di pari passo all’evoluzione e alla crescita dell’azienda. Io sono il primo rappresentante, anagraficamente parlando, della terza generazione: mi piace pensare che la mia sfida sia quella di essere una sorta di manager di frontiera che analizza e indirizza grazie alle discipline d’analisi economica applicate alla quotidianità di un’impresa manifatturiera. La difficoltà non è stata quella di applicare analisi corrette, bensì riuscire ad adottare un approccio pragmatico in grado di mediare tra l’agire operativo di un’azienda come la nostra e l’impostazione analitica e scientifica del mio modo di concepire l’evoluzione imprenditoriale.
È sicuro che serva? Provoco: per avere successo un’azienda di tessuti deve fare bei tessuti. Che altro?
Non scherziamo. Nessuna impresa, oggi, può prescindere da una corretta e puntuale analisi dei costi, dei bilanci, come base per una progettazione scientifica degli sviluppi futuri. Tanto meno lo possono fare le aziende tessili, e aggiungo italiane, così dilaniate da costi dell’energia e cunei fiscali in surplus rispetto a concorrenti di altri paesi. È ovvio che non basta: però non credo di esagerare se dico che per un’impresa italiana del tessile, fare prodotti di qualità è un dato scontato, fa parte della logica delle cose. Diciamo che in questi anni ho compreso che uno dei meccanismi fondamentali del successo, in aziende del genere, è rappresentato dallo spazio che si lascia alla creatività e all’improvvisazione, a una sorta di anarchia geniale che permette di “annusare” l’idea giusta al momento giusto. Il problema che ormai non basta avere solo quel famoso “naso”: la vera sfida sta nel riuscire a trovare il giusto equilibrio tra dono e analisi, tra genialità e preparazione. L’obiettivo è raggiungere una specie di circolo virtuoso tra lo studio dei percorsi di evoluzione dei costi e le necessità quotidiane di un’impresa che ogni giorno deve produrre metri, metri e metri di tessuto. Se c’è rigidità in ciascuna delle due realtà il meccanismo s’inceppa.
A proposito di meccanismi. Tra le sue esperienze lavorative precedenti e quelle attuali ci sono grandi differenze di protagonismo. Quando analizzava bilanci era in prima persona a essere chiamato in causa, in azienda, invece, lavora in un team – aziendale oltre che familiare – e deve confrontarsi in continuazione. Quale modalità preferisce?
È indiscutibile che ci sono grandi differenze. Qui c’è un’organizzazione a cui fare continuo riferimento, di cui si è ingranaggio. Prima, invece, le responsabilità erano quasi squisitamente personali. A essere sinceri, se tornassi indietro, un altro paio d’anni di quella esperienza me li concederei, perché sono convinto che la contaminazione tra sperimentazioni di lavoro così diverse sia molto utile. Probabilmente una delle possibili strade per affrontare le sfide che ogni azienda come la nostra deve vincere.
Dica la verità, secondo lei le imprese tessili italiane del settore arredamento sono abbastanza forti – anche dal punto di vista della capitalizzazione – per affrontare il mercato internazionale?
Si parla spesso della bassa capitalizzazione delle imprese italiane come di una delle fragilità storiche della nostra industria nazionale. È un discorso forse vero in termini generali, ma se guardo alle realtà del distretto brianzolo di comparto, non vedo tale particolare fragilità. Le aziende, dal punto di vista specifico della capitalizzazione sono ben equilibrate. I problemi sono altri, legati soprattutto alla capacità di essere efficienti in un quadro di sistema più difficoltoso e farraginoso rispetto a quello di altre nazioni. La solidità delle imprese, la loro capacità di concorrere sul mercato globale, non credo si possa più affidare solo a definizioni e slogan che fino a poco tempo fa davano un vantaggio competitivo reale. Il Made in Italy per esempio, non credo basti più come etichetta di appartenenza per determinare le scelte della clientela mondiale. È ancora un plus, senz’altro, ma non può essere fine a se stesso, vuoto di contenuti reali oppure riferito solo a elementi estetici. Essere bravi non significa fare solo tessuti belli, perché ci sono competitor internazionali ormai altrettanto eccellenti. Penso solo a quanto sono cresciute alcune realtà produttive turche, da questo punto di vista. Le leve strategiche per eccellere e avere successo sono legate alla capacità di essere efficienti a tutto tondo verso i clienti; di rispondere con rapidità e puntualità alle richieste di servizio post vendita; di agire con flessibilità massima su ordinativi anche minimi fornendo qualità e continuità su ogni genere di richiesta. Direi che proprio in questo ambito la mia specializzazione diventa cruciale: ottimizzare i costi e i processi è la base fondamentale per fornire questo genere di servizio.
Bene, e nello specifico qual è la ricetta della Pozzi Arturo per eccellere sul piano internazionale?
Nel nostro caso operiamo con una precisa strategia: diversificare e operare con un portafoglio clienti vasto e plurale. In questo modo andare a individuare clientele diverse ed essere il più possibile anticiclici e al riparo dagli andamenti congiunturali dei vari comparti di consumo. Per fare ciò bisogna creare prodotti adeguati a soddisfare esigenze diverse. Va da se che per seguire una strategia del genere l’indice d’impegno nella ricerca e nello sviluppo deve essere molto alto e il mix tra innovazione, design e valore va sempre mantenuto ai massimi livelli. Ecco perché il controllo dei costi deve essere puntuale e preciso: la necessità d’investire risorse nello studio, nella prova e nello sviluppo di nuovi tessuti e di nuovi filati è strategica e irrinunciabile. Tutto ciò significa poter accedere a flussi d’investimento ogni giorno più impegnativi, che possono essere individuati solo grazie a una gestione virtuosa dei costi. Vuole un esempio? Le nostre collezioni Fortezza©: una serie di prodotti realizzati con un filato assolutamente innovativo, resistente al fuoco, lavabile in lavatrice, senza necessità di essere stirato, anallergico, atossico, antibatterico e riciclabile. È un tessuto che può essere utilizzato sia nel residenziale che nel contract, nell’outdoor e nell’arredamento da interni, soddisfacendo perfettamente le esigenze di ciascuno dei vari mondi di consumo. In questo modo noi abbiamo costruito una proposta che può andare a soddisfare egualmente gli architetti e i produttori d’imbottito, le grandi forniture navali come il contract alberghiero e i produttori di complementi per l’esterno. Non è solo un prodotto nuovo, è il frutto di ricerca e investimenti e di una strategia ben studiata alle spalle. Non vorrei però comunicare l’immagine di un manager vocato solo ai numeri e alla ricerca tecnologica. In questi tre anni ho potuto più volte sperimentare quanto il gusto italiano e lo stile siano ancora componenti fondamentali che non vanno mai tralasciate. Solo non sono le uniche. Per dirla con termini matematici: sono necessarie ma non sufficienti. Prima ho detto che qualità e valore estetico delle collezioni di un impresa italiana sono date quasi per scontate dalla clientela, ma ciò non vuol dire che siano meno importanti. Devo dire che in tutte le mie esperienze fieristiche ho sempre notato che il cliente professionale ha un approccio simile a quello del consumatore finale: prima di tutto il tessuto deve piacere esteticamente, colpire l’immaginario, solo in seguito se ne valutano caratteristiche, qualità e prezzo. Questo significa, in ogni caso, che se non si cura l’armonia decorativa, non si centrano le gamme colore, al di là degli altri contenuti, la collezione è davvero difficile da vendere.
Ultima domanda, che rapporto avete con internet e col web? Ormai in rete si vende qualsiasi cosa
Sì, è vero, si vende qualsiasi cosa però la nostra attività è ancora totalmente legata a trasformatori che utilizzano un semilavorato. Per questo l’e-commerce è ancora lontano da noi. Invece la rete è un’occasione eccezionale per esaltare il concetto di servizio e d’informazione di cui parlavo prima. Vedo il web come il luogo ideale per dare rapidità ed efficienza ai rapporti con i nostri clienti, sia da un punto di vista commerciale – per ordini e quant’altro competa il servizio - sia da quello della reperibilità delle informazioni sempre più approfondite. Una sorta di “extranet” con la clientela per dare risposte in tempo “quasi” reale.
(Sergio Coccia)