Designer di tessuti è possibile!

Essere un giovane architetto e amare il tessuto d’arredamento. Una condizione quasi unica, almeno in Italia. Eppure è possibile e la storia di Alessandro Stecca lo racconta e lo dimostra. Il protagonista del nostro incontro coordina da una dozzina d’anni il team creativo e progettuale di Beatrix, azienda tessile fondata dal padre 26 anni fa. La sua matrice culturale affonda nell’amore per l’architettura e il design, ma le ragioni di tale passione continua a rintracciarle anche nella sfera del tessile, sperimentando e creando centinaia di proposte tessili ogni anno. Ciò dimostra che la sintesi tra i due mondi non solo è possibile, ma è proficua e vantaggiosa.

È abbastanza raro, nel settore del tessile d’arredamento, parlare con giovani manager, figli di tradizione tessile e integrati nell’azienda familiare, che non abbiano una preparazione scolastica di derivazione economica e, ancor più raro, incontrare qualcuno che provenga invece dal mondo dell’architettura e del design. A dire la verità sarebbe assolutamente normale visto che il tessuto è componente centrale della composizione d’interni ma, in Italia, c’è poco da fare, il tessuto vive una collocazione mediamente secondaria nella “top ten” degli architetti e dei designer. Dunque raccontare storia e opinioni di un architetto e designer quarantenne che ha scelto di creare e progettare tessuti nell’azienda di famiglia è un’occasione ghiotta che forse ci permetterà di capire – dall’interno – il perché di questa apparente contraddizione: in un paese che ha scritto molta storia mondiale del tessile e, ancora oggi, è fra le nazioni guida in questo settore, è davvero difficile affermare la dignità del tessuto come elemento non certo dominante, ma almeno paritario, nell’economia creativa di ogni oggetto mobile d’arredamento.

Parliamo di Alessandro Stecca, classe 1974, figlio di Leopoldo Stecca che ventisei anni fa creò Beatrix, azienda tessile in quel di Padova che attraverso i decenni diventa prima un converter di primaria qualità e poi, verso la fine degli anni 90, un vero e proprio produttore, con uno stabilimento proprietario a Prato, nel centro di uno dei distretti tessili più stimolanti e creativi d’Italia. Subito dopo, nel 2001, Alessandro entra in azienda per guidare il team di ricerca e sviluppo, cuore di questa media impresa italiana ormai quasi completamente orientata verso il mercato d’esportazione, con una gamma di proposte creative in continua e instancabile evoluzione. Il nostro protagonista parte dalla laurea in architettura e, in una prima fase, si dedica all’edilizia e al restauro, destinazioni professionali elettive per un “fresco” architetto. Poi però entra nell’azienda di famiglia e comincia a sperimentare nel mondo del tessile, spostando in parte la sua inclinazione verso la sfera del design e dei progetti d’arredamento realizzati ad hoc con la clientela d’impresa in ogni parte del mondo.

La prima domanda è d’obbligo: dall’edilizia e dal restauro alla progettazione di collezioni di tessuti d’arredamento, quanto è rimasto in lei dell’architetto che sognava di “assemblare volumi nella luce” come diceva le Corbusier?

Il fatto è che non ho assolutamente smesso di assemblare volumi nella luce. Scherzi a parte, direi che le motivazioni per le quali fin dal liceo (artistico, ndr) amavo l’architettura sono rimaste intatte, solo è cambiata la tipologia di materie con cui cerco di creare. Indiscutibilmente gli studi mi hanno permesso di rendere solida la base culturale per la ricerca delle forme, e rendere le stesse armoniose e sintoniche. Ma questo è solo un aspetto: altro insegnamento importante e assolutamente presente è l’aver compreso negli anni dell’università come non ci sia nulla di più stimolante della ricerca applicata, della capacità di dare forma e sostanza a un progetto, a un obiettivo d’arredamento. Che questo sia poi fatto con mattoni, plastica o filati poco importa. Direi quindi che è rimasto tutto del mio essere architetto nella mia attuale occupazione, anzi, se non avessi percorso questo programma di studi non credo sarei stato in grado di svolgere nello stesso modo (o con tanta passione) tale attività.

Eppure la maggioranza dei suoi colleghi non esprime la stessa passione/considerazione per il tessuto, almeno in Italia…

Sì, è una vecchia storia, ma non è così semplice e univoco dedurre che l’architetto o il designer italiano non ama il tessuto. Prima di tutto perché ci sono fior di designer che il tessuto lo usano eccome, e poi perché un ruolo fondamentale lo gioca il mercato con cui il professionista, volente o nolente, si deve confrontare nella quotidianità. Più che gli architetti è il mercato che nel nostro paese, da almeno cinquant’anni, è convinto che basti la forma per dare sostanza al design e che la materia sia un fattore secondario. Quindi più la materia è semplice e omogenea, più si è certi del risultato. Decenni di questa convinzione, di richieste dell’industria e della distribuzione orientate solo in quel senso, hanno abbassato notevolmente la percezione di valore nei confronti del tessuto e hanno convinto i designer (e qui qualche colpa la categoria ce l’ha) che l’aggiornamento nei confronti del tessuto è inutile o secondario. Con una materia sconosciuta è difficile creare, e se c’è “non conoscenza” su una tipologia di superficie, è quasi impossibile esprimerne le potenzialità all’interno di un complesso progetto di design. Questo è lo stato attuale della considerazione del tessuto da parte del mondo del design, e non è certo responsabilità solo della sottovalutazione da parte del mondo degli architetti.

Fin qui in Italia, ma all’estero l’approccio è diverso?

Totalmente. È davvero un altro mondo. Prima di tutto c’è un apprezzamento maggiore e diffuso nei confronti del tessuto e, soprattutto, della sostanza del suo ruolo. Questo è un argomento fondamentale. Il tessuto non è solo più o meno decorativo, ha un effetto qualificante. Prendiamo l’esempio di un divano. Si dice e si crede che il consumatore chieda sempre il tessuto più neutro e semplice da trattare, per non “caricarsi” di un problema – il tessuto, o il colore, caratterizzante dopo un po’ stufa. Quello prezioso è delicato e si lava con difficoltà, eccetera, - questo può essere vero solo nella misura in cui non gli si conferisce il valore adeguato, avendo ben chiaro che il giusto rivestimento può sottolineare ed esaltare le forme, renderle uniche e originali. Non solo. I finissaggi e le lavorazioni davvero particolari che oggi possiamo realizzare hanno uno straordinario pregio comunicativo, quello del tocco, della “mano”. Un fattore d’innamoramento che vale tanto quanto quello visivo, affidato all’armonia delle forme. Permettetemi una battuta: nessuna plastica riuscirà mai a sollecitare il piacere del tatto come può farlo un tessuto dalla mano calda e setosa! Ecco, all’estero la percezione diffusa è proprio questa.

Un altro fattore importante è la disponibilità a sperimentare, il coraggio di aprirsi mentalmente alla novità e affidarsi alla competenza del partner. In Italia si va dal fornitore e si chiede di vedere il campionario per scegliere qualcosa adeguato a soddisfare un’esigenza; all’estero si va dal fornitore, si spiega l’esigenza e si chiede a lui come si può risolvere il problema. Sembra un banale problema d’approccio, ma è il fondamento discriminante che valorizza la nostra attività.

È chiaro, lei è innamorato del tessuto indipendentemente dal fatto che la sua famiglia abbia fondato Beatrix. Però i fatturati devono quadrare e se l’Italia vuole i “soliti” tessuti bisogna piegarsi alle esigenze del mercato. Quindi il suo team creativo deve comportarsi di conseguenza…o no?

Ancora con una battuta potrei dirle che è per questo che noi esportiamo ormai l’80% delle nostre produzioni. Ma non è solo una questione di mercati di sbocco e di opportunità di vendita. In realtà è la concezione più profonda del nostro lavoro a essere messa in gioco. Noi investiamo circa il 10% del fatturato in ricerca e sviluppo delle nostre creazioni. Senza temere di apparire eccessivi direi che potremmo dare idee ad almeno altre tre aziende senza alcuna difficoltà. Prove, sperimentazione tecnologica, test di nobilitazione e quant’altro sono il nostro pane quotidiano. Non riesco a pensare in altro modo al nostro lavoro, quindi la risposta è ovvia: no, non ci pieghiamo a un mercato che richiede omologazione e rassicurante ripetitività, piuttosto ci sfidiamo in continuazione e cerchiamo il confronto dove possiamo esplorare al massimo il gioco della ricerca. Del resto è proprio aver compreso che sono pochi i limiti alla sperimentazione che si possono incontrare nel mondo del tessuto che mi ha fatto apprezzare questo ambito professionale; sarebbe assurdo quindi essere noi stessi a porre dei paletti, semplicemente per ricercare più facili fatturati che poi, peraltro, facili non sono, in quanto ci si va a scontrare con realtà concorrenziali diverse, in una realtà territoriale – quella italiana – che offre possibilità di business sempre più limitate.

Quindi lei sostiene che passione, impegno e creatività sono le componenti qualificanti che permettono di emergere fuori dai confini nazionali, anche se ci si scontra con i colossi mondiali. Non è una visione un po’ romantica?

Calma, non intendevo farla così semplice. La crisi di questi ultimi anni ha radicalmente mutato la ciclicità delle presentazioni. Tutto è diventato più rapido e di conseguenza più caotico e difficile. Prima c’erano mediamente due appuntamenti di presentazione l’anno, oggi ci sono ancora le scadenze fieristiche ma la ricerca non si può fermare mai e il flusso creativo non può avere soluzione di continuità. Questo impone efficienza, capacità organizzativa e flessibilità impensabili solo qualche anno fa. In tutto ciò c’è ben poco romanticismo e molta concretezza, tuttavia l’impresa italiana è apprezzata all’estero non per questi pregi – dati per scontati, in qualche modo – ma proprio per la passione e l’impegno che dimostra ogni qual volta affronta una sfida creativa. In fondo non c’è nulla di diverso rispetto alle ragioni che hanno determinato il successo del nostro design: il mobile italiano non ha conquistato il mondo per l’efficienza dei suoi impianti produttivi – diciamo la verità – ma per la bellezza e l’originalità delle sue proposte. E qui torniamo al fondamento dell’architettura: lo studio delle forme e delle materie al fine di aggregarle con armonia ed equilibrio.

Tempo fa, intervistando un grande editore tessile emerse che per eccellere sul piano internazionale era indispensabile interpretare i temi culturali di ogni area del mondo adattando a loro le creazioni tessili. In poche parole si dovevano “localizzare” le collezioni interpretando il gusto e la tradizione del luogo. Cosa ne pensa?

Non sono completamente d’accordo. In parte può essere necessario interpretare il gusto del luogo, ma deve essere un’operazione di “cucina” creativa delicata e capace di non snaturare la nostra impronta interpretativa. È proprio quest’ultima che la clientela internazionale ricerca e desidera: ridurla ai minimi termini per facilitare il rapporto di lavoro col cliente può diventare controproducente proprio perché neutralizza il nostro valore principale.

Si dice che la capacità di trarre ispirazione dagli stimoli più diversi amalgamandoli in un progetto creativo sia il pregio più importante per un architetto/designer. Lei da cosa trae ispirazione per creare le sue collezioni di tessuti?

Sono molto d’accordo. È difficile identificare un argomento particolarmente stimolante anche se, è ovvio, l’abbigliamento continua a giocare un peso importante. Diciamo però che è un peso molto “tecnico”, legato ai processi di lavorazione e finissaggio, ambiti nei quali quel settore sperimenta molto più di noi. Per il resto l’idea, lo stimolo, sono il frutto dell’osservazione. Dell’osservazione di come si orienta la società o le tendenze. Questo è l’aspetto più bello e giocoso del lavoro: il fatto è che poi si deve essere capaci di mediare e adeguare questa sorta d’ispirazione ai limiti materici del nostro prodotto e, soprattutto, ai desideri e alle esigenze della clientela. Questa è la parte più difficile: più si riesce ad affinare l’idea, a comunicarla correttamente, a renderla fruibile e leggibile, più ci si è avvicinati allo scopo finale.

 

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